Con tutto il rispetto per le bestie, si intende.
Ma generalmente è così: i collari dei nostri amici pelosetti vanno applicati al collo.
Eppure ci fu un tempo in cui l’umanità venne lasciata fuori dalla porta e dimenticata, e i collari venivano messi agli uomini.
Per raccontare questa storia assurda dobbiamo viaggiare nel tempo sino al secondo conflitto mondiale e ricordare (Sfizi.Di.Posta ne ha parlato più volte) che un militare catturato in guerra era sottoposto allo status di “prigioniero di guerra” e, in quanto tale, godeva dei diritti stabiliti dalla relativa Convenzione di Ginevra del 1929.
Il documento che ci consente di raccontare questa storia non è postale, come invece normalmente avviene nei racconti di Sfizi.Di.Posta, ma data l’importanza dell’argomento e, soprattutto, la rarità dell’oggetto, ritengo che si possa tranquillamente derogare per una volta.
Per essere certo di scrivere cose corrette, ho mostrato il documento ad alcuni esperti filatelisti di storia postale militare, e chiunque ho interpellato mi ha assicurato di non aver mai visto nulla di simile.
O, meglio, l’oggetto è noto; quel che è davvero anomalo è ritrovare questo oggetto in queste condizioni.
Vengo e mi spiego.
Quando durante la guerra un militare veniva catturato dal nemico, veniva spedito in un campo di concentramento con lo status di “prigioniero di guerra”.
Al momento della cattura o quando il militare catturato giungeva al campo, gli veniva appesa al collo un’etichetta con uno spago sulla quale erano annotate le sue generalità, in attesa di essere registrato al campo di destinazione.
Una volta registrato e una volta che gli veniva assegnato un numero univoco che lo avrebbe identificato da quel momento in avanti per tutta la durata della prigionia, quell’etichetta veniva staccata dal collo con un movimento repentino verso il basso.
Di conseguenza, lo spago rimaneva attorno al collo del prigioniero, mentre l’etichetta andava perduta, o se non andava perduta presentava l’asola entro cui scorreva lo spago lacerata.
E’ pertanto una rarità trovare questo oggetto in queste condizioni, con l’asola intatta e lo spago ancora attaccato.
C’è poco da gioire, tuttavia, nel pensare che sia un oggetto raro.
Personalmente non faccio a meno di pensare a quel poveretto, a quel Dino Sturini, nato il 7 dicembre 1920, sottotenente (“2nd LT” sta per “second lieutenant“), catturato il 4 agosto 1943 a Santo Stefano dalla III Divisione americana.
E’ difatti americana la fattura di questa etichetta che ben si confà al pragmatismo statunitense. Non si conoscono infatti etichette del genere allestite dagli altri Alleati.
Il luogo (Santo Stefano, in provincia di Messina) e la data di cattura (4 agosto 1943) ci chiariscono che il ‘nostro’ Dino venne fatto prigioniero degli americani a seguito dello sbarco alleato in Sicilia avvenuto meno di un mese prima.
Si calcola che in Sicilia, dal 10 luglio (data dello sbarco) al 17 agosto 1943 (data dello sgombero di Messina da parte delle forze italo-tedesche) 120.000 militari vennero fatti prigionieri, di cui 65.000 rilasciati sulla parola (Andrea Crescenzi, “Fondo M-9. Serie Sicilia (Pantelleria, Lampedusa, Egadi e Calabria). Inventario“. Stato Maggiore della Difesa, Ufficio Storico, Roma, 2019, pag.30).
Dino era tra questi prigionieri.
Lo ritroviamo nel volume appena citato a pagina 380, ovvero all’interno della busta 182, fasc.194 “S”, s.fasc.54 del corposo Fondo M-9 (291 buste in tutto, 60 metri di lunghezza lineare) dell’archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito che si basa sui verbali di interrogatorio dei prigionieri di guerra.
Dino Sturini nel Fondo M-9 viene inquadrato come sottoufficiale di fanteria di complemento, comandante in seconda del plotone 427° compagnia mortai da 81 mm. 435° battaglione costiero, catturato il 2 agosto 1943 a Caronia (Messina).
Ciò è in leggero contrasto con quanto riportato sull’etichetta in merito alla data di cattura, 4 agosto anziché 2 agosto.
Quindi, o si è sbagliato Dino a riferire questa data quando venne interrogato, o si è sbagliato l’ufficiale americano nel riportare sull’etichetta la data sbagliata.
Gli venne quindi assegnato il numero 81-I-51246 (dove “I” sta per “Italian“; ai tedeschi veniva assegnata la lettera “G”, “German“).
Quest’ultima informazione non è desumibile dall’osservazione di questa etichetta, ma da una cartolina inviata dallo stesso Dino nel giugno 1945 da “US PWE 115-D/6 – Naples” e indirizzata alla famiglia a Verrua Po (provincia di Pavia), e che, casualmente, uno studioso del settore possiede (qui non riprodotta, credetemi sulla parola).
Possiamo quindi dire che a giugno 1945 il ‘nostro’ Dino si trovava a Napoli, nella enclosure americana (“US PWE” sta per “United States Prisoners of War Enclosure“) 115-D/6 evidentemente in attesa di rimpatrio definito, ma non ho elementi per dire verso quale campo venne spedito subito dopo la cattura.
Altri elementi importanti sono al retro dell’etichetta.
Come è possibile osservare, vi è una data, febbraio 1942, a indicare il periodo in cui vennero approntati questi cartellini.
Inoltre, vi è la conferma che tale cartellino fosse solo americano e non alleato, “U. S. Government Printing Office“.
E, infine, delle “istruzioni per l’uso” che fanno accapponare la pelle:
«1. This tag will be accomplished at the division collection point (or by the capturing unit or at such other point as the division commander shall prescribe) at which point, each prisoner of war will be tagged (loop cord around neck).
2. Prisoners of war will be warned not to mutilate, destroy, or lose their tags.»
Che tradotto dall’inglese suona più o meno così:
«1. Questo cartellino sarà apposto nel punto di raccolta della divisione (o dall’unità di cattura o in un altro punto prescritto dal comandante della divisione), dove ogni prigioniero di guerra verrà identificato (cordino intorno al collo).
2. I prigionieri di guerra sono avvisati di non deteriorare, distruggere o perdere il proprio cartellino.»
Per essere certi di venir compresi, dal momento che i prigionieri alleati sarebbero stati o tedeschi o italiani, ne venne fatta una sintetica (quanto approssimativa) traduzione in basso:
«Die Kriegsgefangenen dürfen desen Zettel nicht beschädigen, zestören, oder verlieren.
Se previene i prigionieri di guerra di non mutilare, destruggere o per dere questa etichetta.»
Vi starete infine chiedendo se il ‘nostro’ Dino tornò a casa o meno.
Nella banca dati messa a disposizione dal Ministero della Difesa sui dispersi della Seconda guerra mondiale figura uno Sturini proveniente da Verrua Po, ma si tratta di un certo Erminio deceduto ad aprile 1945, quindi forse un parente ma non Dino.
Dino, quindi, tornò a casa.
E tornò a casa da uomo, sebbene un altro uomo abbia tentato di trattarlo come una bestia.
Sempre con tutto il rispetto per le bestie.
Riproduzione riservata.