Anticipate da un’ampia campagna preparatoria e propagandistica e dalla “Dichiarazione sulla razza” approvata il 6 ottobre 1938 dal Gran Consiglio del fascismo, le leggi razziali vennero promulgate con Regio Decreto Legge 17 novembre 1938, n.1728, poi convertito in legge nel 1939 (seduta del 14 dicembre 1938, presenti e votanti 351, voti favorevoli 351, voti contrari 0), e integrato più volte successivamente.
Tra quattro giorni saranno esattamente 85 anni da quella maledetta decisione.
I cittadini italiani di razza ebraica non possono contrarre matrimonio con una persona di razza italiana, non possono prestare servizio militare, non possono possedere o gestire aziende di interesse nazionale, non possono essere proprietari terrieri, non possono possedere palazzi di una certa cubatura, e così via.
Sono solo alcune delle limitazioni introdotte dal decreto.
E chi può essere etichettato “ebreo”?
Lo spiega chiaramente e compiutamente l’art.8 di detto decreto.
Era l’inizio della fine, e credo che in quel momento tutti gli ebrei ne ebbero contezza. E paura.
Senza andare troppo lontano, è sufficiente anche una distratta lettura di “Caratteri fisici e spirituali della razza italiana” di Giovanni Marro, edito ad aprile 1939 a cura dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista di Roma per rendersene conto.
Per argomentare tesi come quella riportata in premessa, «Fra tutte queste civiltà derivate dal ceppo della razza bianca, quella che indubbiamente detiene il primo posto nella classifica è quella italiana», il volume va a scomodare il colore dell’iride, la forma dei capelli, persino i caratteri craniometrici.
Del resto, qualche anno prima, in Svezia, il medico Herman Lundborg (1868-1943), direttore dell’Istituto svedese per la biologia della razza di Uppsala e convinto assertore della validità scientifica delle misurazioni antropometriche, aveva fotografato, misurato e schedato centinaia di Sámi, una popolazione indigena di una regione della Lapponia e che spesso viene identificata appunto come Lapponi.
Che vi siano differenziazioni somatiche in funzione della genetica, dell’ambiente, dell’alimentazione delle diverse popolazioni presenti sul pianeta, a me, in tutta onestà, sembra abbastanza ovvio ed evidente.
Il punto non è questo, non è stabilire che il cinese abbia gli occhi a mandorla e l’africano la pelle nera.
Il punto è se questi elementi vengono usati per distinguere noi stessi dagli altri, per creare un “noi” e un “loro”, e per sostenere tesi di superiorità di una razza rispetto alle altre.
Ecco che il limite esistente tra studio della razza e razzismo viene superato.
Ed ecco perché molti studiosi le leggi del ’38 le chiamano “razziste” e non “razziali”.
Le leggi razziali (o razziste) promulgate in Italia vennero inoltre anticipate, e rafforzate, dal cosiddetto “Manifesto della razza“, pubblicato su “Il Giornale d’Italia” del 14 luglio 1938, quindi poche settimane prima delle leggi razziali, poi ripubblicato sulla rivista “La difesa della razza” (un nome, un programma…) del 5 agosto 1938.
A firma di dieci scienziati e professori universitari (Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Donaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari), il manifesto sancisce in maniera inequivocabile il cosiddetto “razzismo scientifico”, ovvero quel razzismo che, per legittimarsi, va a ricercare elementi scientifici per comprovare le proprie tesi.
L’università non fu infatti esente da tutto ciò.
Proprio nella già citata Dichiarazione sulla razza approvata dal Gran Consiglio del fascismo nel 1938 si dichiarava:
«Il Gran Consiglio del Fascismo prende atto con soddisfazione che il Ministro dell’Educazione Nazionale ha istituito cattedre di studi sulla razza nelle principali Università del Regno.»
Anche all’università si studiava quindi la razza, e il documento postale di oggi ce lo conferma.
Si tratta di una cartolina postale spedita da Roma il 26 maggio 1940 e diretta a Jesi (Ancona) dove dovrebbe essere giunta lo stesso giorno (dal timbro mal inchiostrato sembra intravedersi un 26).
Il mittente, al recto, in alto a sinistra annotò “Urge”, ma non pagò il servizio Espresso, in quel momento disponibile, per assicurarsi una veloce consegna.
In effetti, come adesso osserveremo leggendone il contenuto, era necessario che la cartolina giungesse a destinazione rapidamente:
«L’esame di biologia della razza è fissato per il 28 corr. alle ore 8. Ossequi. Luigia Arbizzani»
Tutto chiaro, no?
Ironia della sorte, chi scrive (probabilmente un amministrativo o un assistente, in ogni caso evidentemente allineato al regime) porta lo stesso nome e cognome, al femminile, di un noto partigiano bolognese, Luigi Arbizzani, che qualche anno più tardi tanto si distinguerà nel battaglione Tampellini della 2a brigata Garibaldi Paolo con il nome di battaglia “Oddone”.
Tutto questo accadeva 85 anni fa.
Ma oggi, osservando ciò che avviene in giro per il mondo, siamo sicuri che da quegli avvenimenti abbiamo imparato qualcosa?
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