Ottant’anni fa, giorno più, giorno meno, l’Italia era sotto le bombe.
Sembra incredibile, sembra così lontano nel tempo, sembra una cosa che non ci riguarda, che capita agli altri e mai a noi.
Eppure, appena 80 anni fa, toccava a noi patire i dolori della guerra.
L’8 settembre 1943 veniva firmato l’armistizio. Gli equilibri, seppur deleteri, che fino ad allora avevano consentito all’Italia di tenere gli orrori della guerra abbastanza lontani da sé, saltarono.
Da quel momento fu il caos. Da quel momento alla guerra militare si sommò la guerra civile, quella fatta di vendette, di spiate, di agguati, di occasioni per sistemare vecchi conti in sospeso.
Naturalmente, questa situazione ebbe effetti a tutti i livelli, compresa la posta. In questo periodo osserviamo corrispondenza bloccate per mesi dalla censura, uso di francobolli anomali (marche da bollo, pacchi, etc), assenza di francobolli, missive smarrite, e così via.
La cartolina protagonista dello sfizio di oggi ci restituisce uno spaccato del quotidiano di allora, fatto di ansie, di preoccupazioni, di dolore, ma anche di voglia di andare avanti, di uscire definitivamente da quell’orrore.
Datata 11 gennaio 1944 (ecco perché poc’anzi dicevo 80 anni, giorno più, giorno meno), la cartolina venne spedita da Pisa in direzione Roma.
Il mittente, per avere maggiori certezze che il recapito andasse a buon fine, scelse e pagò la soprattassa di raccomandata (la cartolina risulta correttamente affrancata per 90 centesimi: 30c per la tariffa cartolina, 60c per la soprattassa raccomandata).
Leggiamo subito il testo.
«Martedi 11 Gennaio 1944
Cara Mimmina,
altro giorno senza tuoi scritti! Le ultime notizie, pervenute venerdi decorso, risalgono al 31 dicembre. Vivo in pena, come puoi comprendere. Spero che la posta di domattina mi porti una tua cartolina recente. Spero, altresi, di poter telefonare in questi giorni alla Contessa. Anna continua a stare benino: ormai è superato tutto. Ma è in continua ansia per te, per me, per il continuo inguaribile male che ci circonda. La sua anima, sensibilissima, ne soffre molto. Anche Mammina non le resta dietro. Fortuna che loro la notte dormano come marmotte, mentre io sono insonne: quali e quanti pensieri nelle lunghe ore di veglia! Oggi sono andato in bicicletta a S. Rossore, devastato: è triste! Per me rappresentava una cosa gelosamente mia. Non vi è più un animale, le strade disfatte, la foresta in gran parte abbattuta. Mi sono spinto fino alla bilancia (la nostra bilancia, ricordi?) ed ho pescato. Ti ricordano, puoi pensare con quale commozione, Pilade ed i suoi, il Gamba, Giacomino Serfogli: vecchie anime del padre Arno. Tutto passa! Quando vi tornerai? La Tata, che mi è vicina, ti saluta, affettuosamente. Oggi ti ha sistemato tante cosine, come se tu fossi qui. Che fa Carla? Perché non mi scrive? Baciala. Ti bacio, Babbino.»
Un papà che scrive alla propria figlia, alla propria bambina.
Il destinatario è la N.D. (Nobil Donna) Mimma Brigante Colonna.
E che si tratti di persone benestanti alias altolocate lo si capisce da come scrive, con pochi errori grammaticali quando nella nazione il tasso di alfabetizzazione era decisamente basso, e dalla macchina da scrivere utilizzata, certamente uno strumento in uso in certi ambienti elevati e non nella massa popolare.
“Brigante Colonna” è infatti una famiglia nobiliare importante. Riporto quanto indicato dal marchese Vittorio Spreti nella sua fondamentale opera (per chi studia araldica) “Enciclopedia Storico-Nobiliare Italiana” (Arnaldo Forni Editore, 1928), volume 2 in questo caso.
«La famiglia è l’unico ramo che rimanga dei Colonna Signori di Gallicano, essendosi l’altro spento nel 1429. Prende origine da Matteo di Odoardo che si stabilì in Tivoli quando il fratello Giacomo-Antonio vi fu vescovo, 1210-1219. È questo il vescovo cu si riferisce il miracolo di San Francesco, ricordato da Giotto nell’affresco della Basilica superiore in Assisi. Angelo, di Oddone, di Matteo, viene denominato Brigante (da brigare) soprannome che compare la prima volta nel testamento del figlio Giovanni e che la famiglia conserverà a distinzione dagli altri rami dei Colonna. Mori nel 1348, lapide tombale in S. Andrea di Tivoli. A lui, che insieme col figlio Giovanni, combatté contro Cola da Rienzo, papa Clemente VI scriveva da Avignone la lettera ricordata da Gregorovius chiamandoli «domicelli tiburtini» […] È iscritta nell’elenco ufficiale coi titoli di Nobile di Tivoli mf., Nobile di Assisi mf., Nobile di Recanati mf.»
Quindi, “Brigante” nel senso di “guerriero”, “combattente”.
Non a caso, il motto della famiglia è “Frangitur non flectitur“, una sorta di “mi spezzo ma non mi piego”.
Ma al di là dei rami (spezzati o meno) e delle discendenze nobiliari, quel che più ci interessa è la descrizione di fatti e luoghi che il papà di Mimma ci restituisce a così tanta distanza temporale.
Anzitutto l’ansia di non ricevere corrispondenza. All’epoca in pochi si potevano permettere un telefono, e i Briganti-Colonna forse erano tra questi. Ma nel 1944, quando le bombe cadevano dal cielo come pere mature dagli alberi, forse le comunicazioni risultavano un bel po’ difficoltose. Ecco, quindi, che la posta assume, a tutti i livelli e per tutte le estrazioni sociali, il mezzo, l’unico mezzo, per comunicare.
Impossibile poi non soffermarsi sulla citazione di San Rossore.
San Rossore è una frazione di Pisa nota per il suo parco, all’epoca Tenuta Reale. Tutti i re savoiardi, da Vittorio Emanuele II a Vittorio Emanuele III, hanno avuto grande piacere nel frequentare la tenuta. L’hanno curata, fatta curare, implementata, ingrandita.
Come riportato sul sito web del parco, proprio a San Rossore, il 5 settembre 1938, Vittorio Emanuele III firmò le leggi razziali.
San Rossore è inoltre ‘famoso’ per un ignobile episodio (uno dei tanti, in effetti) che i tedeschi commisero contro l’inerme popolazione nelle settimane del ritiro verso nord.
San Rossore si trovava lungo la Linea Gotica, e qui il 9 agosto 1944 una pattuglia delle SS trucidò le famiglie Scudeller e Davini uccidendo nove tra donne e bambini, mentre gli uomini furono deportati. Passò alla storia come la “strage dell’idrovora”.
Infine, sempre a San Rossore, quando nella loro risalita verso nord gli alleati erano arrivati all’altezza dell’Arno, i tedeschi stabilirono una loro base nella Villa Reale di Cascine Vecchie che poi fecero saltare in aria quando batterono in ritirata.
E’ chiaro quindi che San Rossore fosse devastato in quanto scenario di guerra. Del resto, anche la vicina Pisa non fu esente.
Il 31 agosto 1943 152 velivoli (tra Fortezze Volanti e B-24 Liberator) sganciarono circa 1.100 bombe provocando 952 morti; 961 abitazioni vennero distrutte, altre 1.503 danneggiate.
I bombardamenti continuarono fino alla liberazione di Pisa, il 2 settembre 1944.
Anche Roma subì i bombardamenti alleati, 51 in tutto dal 19 luglio 1943 (il ‘famoso’ primo bombardamento di Roma, con la distruzione di San Lorenzo e 1700 morti civili) fino alla liberazione del giugno ’44.
Ed è a queste bombe che va inevitabilmente il pensiero del ‘babbino’, sapendo sua figlia a Roma.
Intenerisce poi il ricordo della bilancia, il ponteggio provvisorio (su un fiume? Un lago?) che evidentemente costituisce un ottimo punto di pesca. Immagino che ‘babbino’ andasse lì con la sua piccola Mimmina, a ridere, scherzare, osservare l’andamento del fiume o la quiete del lago. Sprazzi di serenità che quasi prepotentemente ‘babbino’ vuole sostituire agli orrori della guerra. Una sorta di medicina del passato per guarire i malanni del presente.
Delicatissimo è poi il momento intimo, familiare, paterno, che ‘babbino’ ha voluto ritagliarsi in un paio di righe, quando riferisce della Tata che ha messo a posto la stanzetta della figlia, «come se tu fossi qui».
Come se la guerra non ci fosse là fuori.
Come se dal cielo piovesse neve e non bombe.
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