Già altre volte Sfizi.Di.Posta si è occupata della corrispondenza dei prigionieri di guerra, e sicuramente altre volte se ne occuperà.
E’ stata una finestra molto ampia della storia del nostro Paese che (solo nella Seconda guerra mondiale) ha interessato oltre un milione di nostri soldati.
Inevitabile occuparsene.
Chi ha già letto di queste storie sa che lo status di “prigioniero di guerra” (POW in inglese, Prisoner Of War) è sancito a livello internazionale grazie a delle convenzioni universalmente riconosciute. Tra queste quella di Ginevra che consente al prigioniero di guerra di inviare e ricevere corrispondenza in esenzione di tassa.
Stante tale diritto, sia gli Alleati che i tedeschi (e in alcuni casi anche i fascisti) avevano durante la Seconda guerra mondiale predisposto e stampato apposite cartoline che venivano fornite in numero contingentato ai prigionieri per scrivere a casa.
Spesso tali cartoline avevano dei campi prestampati che il POW doveva giusto compilare; in alcuni casi erano tipo questionario, il POW doveva solo barrare la voce più adeguata a quanto voleva comunicare a casa.
Questo anche per venire incontro al diffuso livello generale di analfabetizzazione.
Ovviamente, la corrispondenza era sottoposta a censura. E chiaramente i prigionieri di guerra nelle comunicazioni a casa sulle cartoline si dovevano guardare bene a dire che non erano trattati bene.
Ecco quindi che si assiste a una sfilza di “Sto bene“, “Sto benissimo“, “Sono in piena salute“, “Non mi manca nulla“, “Ho cibo e vestiti in quantità sufficiente“, e così via, in una sequenza macabra di bugie atte solo a tranquillizzare a casa.
In realtà occorre dire (e va detto per corretta cronaca) che vi furono situazioni in cui i POW vennero trattati con umanità. In linea generale non accadde, ma qualche volta accadde. Fu consentito loro organizzare attività ludiche, furono loro costruite strutture per svolgerle, fu consentito instaurare una sorta di mercato interno con tanto di monete e banconote del campo, e cose così.
Ai tempi in cui si svolsero i fatti che andremo a narrare vigeva la Convenzione di Ginevra del 1929, e il diritto di inviare e ricevere corrispondenza gratuitamente era determinato dall’art.38.
La missiva protagonista dello sfizio di oggi (una ‘cartolina’ per modo di dire: si tratta in pratica di un leggero foglio di carta, quasi carta velina) è infatti datata 4 marzo 1946, ma venne postalizzata due giorni dopo, il 6 marzo, come attesta il bollo lineare sul fronte.
Ma come, vi starete chiedendo, la guerra non era finita da un pezzo?
Sì, certo, la guerra in Europa era terminata dieci mesi prima, ma i prigionieri di guerra rimasero nei campi per mesi, in alcuni casi per anni, prima di rientrare a casa. Un’attesa svilente, infinita, vissuta peggio dei giorni di guerra, nella totale incertezza.
Il motivo è intuibile. All’alba della fine della guerra occorreva fare un sacco di cose, a partire dalla spartizione del bottino di guerra, sicuramente più importante dell’esistenza di qualche povero cristo che rimaneva infognato nei reticolati dei campi.
Il bollo lineare al fronte, confermato anche da quanto si legge al retro, ci fornisce informazioni molto importanti e utili per comprendere dove il nostro prigioniero fosse detenuto.
“305 P.W. CAMP / 6 MAR 1946 / REGISTRATION OFFICE”, si legge. E anche al retro, alla voce prestampata “Campo Numero” il mittente annotò 305.
Il campo 305 era allocato in Egitto, e precisamente nella località El Kassassin (o El Quassassin, che dir si voglia), un villaggio a una trentina di km a ovest da Ismaila, sul Canale di Suez.
Il campo era gestito dagli inglesi, così come tutti gli altri campi in Egitto che nell’estate 1944 chiusero, ad eccezione appunto del 305 che rimase in attività e nel quale vennero convogliati i prigionieri (per gli Alleati) più pericolosi, nonché un grosso contingente della Guardia Nazionale Repubblicana fascista catturato in Grecia e in Egeo.
Chi riceve è lo studente Paolo che vive a Trieste. Chi scrive è il caporal maggiore Bruno Zoppolato, prigioniero di guerra n.348086.
Leggiamo il testo.
«Caro Paolo:
Non conosco ancora con precisione la natura delle tue marachelle ma sono informato che stai combinando qualcosa di non buono. Principalmente poca attitudine allo studio. Se intenderai che io conservi come sempre la predilezione per te devi correggerti. Te ne sarò grato e non avrai a che pentirtene. Tuo zio Bruno.»
Paolo!!
Hai fatto arrabbiare zio Bruno!
Tra le righe leggo tutto il rigore militare che pervadeva evidentemente il caporal maggiore Bruno.
Già dall’inizio del testo si capisce che aria tira: “Caro Paolo“, due punti e a capo. Della serie: senti un po’ ragazzino, mettiamo le cose in chiaro, adesso ti metti seduto e mi ascolti senza fiatare!
Quel “sono informato” lascia poco spazio a scuse e giustificazioni: lo zio Bruno aveva le sue spie! Accampare qualche motivazione rischiava di peggiorare la situazione!
E infine, il “devi correggerti” non fa trasparire alcuno spiraglio: non un “dovresti correggerti” o un “faresti contenta mamma se ti correggessi“, no, o così o così. Punto.
La ciliegina finale è il “non avrai a che pentirtene“.
Che, a leggere bene, significa: se invece non farai come dico io, avrai a che pentirtene eccome!
Capito, Paolo?
Otto righe appena, ma pesanti come una sentenza!
Ma poi, Bruno, tornò a casa?
Sembrerebbe di sì, non risulta tra i dispersi catalogati nella banca dati messa a disposizione dal Ministero della Difesa.
Quindi, caro Paoletto… Lo zio Bruno è tornato. Problemi tuoi!
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