Settantotto anni fa, di questi tempi, la guerra in Europa era terminata.
Ma era davvero terminata per tutti?
Martina Ravagnan, nel suo saggio “I campi Displaced Persons per profughi ebrei stranieri in Italia (1945-1950)” così riassume la situazione all’alba della fine della guerra:
«All’indomani della fine della Seconda guerra mondiale, nel maggio 1945, si trovavano nei territori di Germania, Austria ed Italia più di 10 milioni di profughi di varia nazionalità.
Questa enorme ed eterogenea massa di persone in movimento, proveniente in maggioranza dall’Europa centrale ed orientale, era costituita da ex prigionieri di guerra, civili in fuga, ex internati di campi di concentramento o di lavoro e da collaboratori volontari dei nazisti.
La loro condizione venne indicata dagli Alleati con la formula Displaced Persons (DPs), coniata dal sociologo e demografo di origine russa Eugene M. Kulisher, un termine tecnico per definire coloro che si trovavano al di fuori dei confini dei propri paesi di origine, persone “spostate” di cui la comunità internazionale doveva occuparsi e che dovevano essere “ri-locate”.»
Dieci milioni di persone soltanto sul territorio di Germania, Austria e Italia…
Ma a questa mole enorme di persone va sommato un numero anch’esso altrettanto importante di persone che al termine della guerra si trovavano ancora nei campi di prigionia sparsi un po’ in tutto il mondo (Gran Bretagna, USA, India, Africa del Nord, Africa orientale, Sud Africa, Australia, etc).
Non vi sono dati precisi, quando si parla di prigionieri di guerra i numeri sono sempre approssimativi. Delle diverse fonti consultate ne riporto una per tutte, dello storico Giorgio Rochat, “I prigionieri di guerra, un problema rimosso” (Italia contemporanea, giugno 1988, n. 171):
«Circa 600.000 militari italiani furono catturati dagli anglo-franco-americani, circa 50.000 dai russi, circa 650.000 dai tedeschi dopo l’8 settembre.
Un milione e trecentomila uomini, quasi tutti tra i 20 e i 35 anni, orientativamente metà dei combattenti sui vari fronti e un terzo degli italiani in divisa nel 1940-43.
E ci limitiamo alla prigionia regolare e riconosciuta, senza tener conto dei deportati politici e razziali nel Reich nazista, degli internati civili, delle diverse e tragiche vicende dei militari sbandati nei Balcani dopo l’8 settembre e dei combattenti della guerra di liberazione, o di gruppi minori, come i prigionieri della repubblica di Salò.
Un milione e duecentomila circa di questi prigionieri rientrarono in Italia tra il 1945 e l’inizio del 1947.»
Ma quando parliamo di “prigionieri” non sempre parliamo soltanto dei militari catturati dal nemico e quindi detenuti con lo status di “prigioniero di guerra”, ma anche di civili che, dall’oggi al domani, si trovarono in terra nemica e che quindi vennero “internati” perché in quel momento enemy aliens, nemici.
Questo è quanto accadde all’alba del 28 novembre 1941 quando la sconfitta italiana per mano inglese nella battaglia di Gondar, ultimo baluardo italico in terra coloniale di una guerra iniziata il 10 giugno 1940, di fatto sancì la fine dell’Africa Orientale Italiana (A.O.I.).
Evacuati o catturati gli oltre 100.000 militari di stanza in A.O.I., in quelle terre rimasero i civili delle città la cui evacuazione non fu affatto rapida e riguardò soltanto donne, bambini, invalidi e over-60.
Tra l’aprile 1942 e il settembre 1943, con l’impiego dei transatlantici requisiti Saturnia, Vulcania, Caio Duilio e Giulio Cesare, trasformati dalla Croce Rossa in navi ospedale, si svolsero tre missioni di rimpatrio che riportarono in Italia circa 28.000 persone.
Tutti gli altri vennero internati nelle vicine colonie britanniche, spessissimo utilizzati come manodopera a costo zero.
Per raccontare meglio questa storia ci affidiamo, come sempre, a un documento postale datato 21 agosto 1945 ma postalizzato qualche giorno dopo, il 24 agosto.
Possiamo osservare da subito che il bollo postale apposto al recto riporta la dicitura “P.O.W. – E.A.C.”, sigle che stanno a significare “PRISONERS OF WAR – EAST AFRICA COMMAND”.
Sempre al recto del piego troviamo un bollo lineare su due righe, “POSTAGE FREE EVACUEES MAIL”. Evacuee sta per internato, e questo bollo attestava il diritto alla franchigia postale, così come per i prigionieri di guerra.
La corrispondenza da e per i campi di prigionia militare godeva di franchigia per il porto ordinario (eventuali servizi aggiuntivi, come la Posta Aerea, andavano invece pagati).
Tale esenzione era stabilita dall’art.38 della “Convenzione internazionale sul trattamento dei prigionieri di guerra” firmata a Ginevra il 27 luglio 1929 e resa esecutiva in Italia con il Regio Decreto n.1615 del 23 ottobre 1930.
L’esenzione postale venne successivamente confermata anche nella III Convenzione di Ginevra (art. 71) del 12 agosto 1949.
I diritti (e quindi anche l’esenzione postale) di cui godevano i prigionieri di guerra venivano applicati anche agli internati civili, e questo grazie all’Art.46 della IV “Convenzione relativa alle leggi e agli usi della guerra terrestre” firmata a L’Aja il 18 ottobre 1907.
E ancora al recto del piego troviamo un secondo bollo lineare, su due righe, “P/W MIDDLE EAST 137”. E’ un bollo di censura.
Tutta la corrispondenza proveniente dai campi di prigionia (per militari o per civili) non venne quasi mai controllata e censurata nei campi o in prossimità di essi.
In particolare, le missive provenienti dall’Africa orientale venivano controllate più frequentemente in Egitto, al Cairo, in quanto terra di passaggio.
Anche questa missiva venne controllata al Cairo.
Al verso, troviamo altre due indicazioni importanti.
Anzitutto il numero assegnato al prigioniero Giuli Pietro, “E 40346”. Normalmente, gli internati civili venivano distinti dai prigionieri militari anteponendo al numero la lettera “E”, che stava appunto per Evacuee, internato.
Quindi, un altro bollo lineare, stavolta su tre righe: “N° 1-A ITALIAN EVACUEE CAMP -NYERI STATION- KENYA COLONY”.
Questo bollo è fondamentale per comprendere dove Pietro si trovasse.
Nei pressi della stazione di Nyeri, popolosa città del Kenya non tanto distante da Nairobi, vennero allestiti due campi, n. 1-A e n. 1-B, distanti 3 km l’uno dall’altro, solo per internati civili, non per militari. Nei due campi vennero internati circa 5.000 Italiani provenienti soprattutto da Harar, una città dell’Etiopia.
Henry De Monfreid, avventuriero francese, nel suo “Du Harrar au Kenia a la poursuite de la liberté” (Editions Du Triolet, Paris, 1949), internato come simpatizzante per l’Italia, così descrive la situazione nel campo (ne ho fatto una libera traduzione dal francese, lingua originaria nel volume da me consultato):
«Il campo mi appare all’improvviso, con le sue innumerevoli baracche di cartone bitumonoso. […] Ecco dove vivrò d’ora in poi, confuso con questo gregge. […]
Ritrovo in questo campo tutta Harar, tutti quei piccoli negozianti che sono venuti in Africa a cercare fortuna. Benedico il cielo di essere lontano da questo ambiente che mi fa rimpiangere i contadini e gli operai, quei semplici soldati del campo di Makindu e Nairobi. Questo è il vero popolo italiano, semplice e ammirevole per il suo amore per il lavoro. […]
Il capo campo, Padre Michelangelo, merita una parentesi. Alto, con le spalle quadrate, sempre a passo veloce un po’ inclinato come se dovesse saltare un ostacolo. Sempre a testa scoperta, cranio rasato, barba rossa, viso magro, nervosamente scolpito, scuro per il sole, esprime decisione e fermezza.»
Giusto per completezza di informazione, i civili italiani vennero internati in Kenya oltre che a Nyeri anche nei campi di Nanyuki e Mackinnon Road, e in Tanganyika nel campo di Tabora.
Il piego è indirizzato alla moglie Francesca a Santa Croce Camerina, paese in provincia di Ragusa, dove giunse (come attesta il bollo postale al verso) il 22 ottobre 1945, due mesi dopo essere stato inviato.
Sin qua abbiamo visto informazioni sicuramente interessanti, ma la più interessante è all’interno, come spesso accade.
Leggiamo cosa scrive Pietro (è una fedele trascrizione, errori grammaticali compresi).
«Mia amata ciccina ti scrivo questa lettera senza tue lettere i quali ti informo della mia ottima salute cosi spero che questa mia presenti lettera venga a ritrovare a te assieme alla nostra cara figlioletta come il mio cuore desidera, assieme ai nostri cari genitori fratelli e sorelli, Ciccina cara ti informo che adesso la guerra e finita anche col Giappone speriamo che si dicidono a rimpatriarci al piu presto credo che anche voi lo sapete che tutto e finito adesso adesso o piu speranza ma finche la guerra col giappone non finiva stai sicuro che non ci rimpatriavano se ne parlava quando tutto era finito, quinti adesso sara poco la nostra lontanazza, Ciccina mia ti faccio sapere che o ricevuta una lettera in data 9 maggio di mia sorella i quali mi parla che per nessun motivo mentre che sono qui mi puo aiutare mi scrisse che quando sono in italia mi aiuta in tutto e per tutto anche mio cognato ciarli mi scrisse pure cosi speriamo che sia vero anzi mi scrive che ti aveva chiesto un intirizzo come gia tu mi ai scritto di palermo e ancora aspittano tua risposta, mia madre gia Elena mantarono e di gia anno spedito i primi pacchi, baci ai nostri cari Genitori fratelli e sorelli e tu assai a pupa, Ariciviti forti baci e abbracci vostro sempre Pietro arrivederci presto».
A parte intenerirci il cuore per come scrive Pietro alla moglie (bellissimo è come scrive Charlie, “ciarli“, il nome americanizzato del cognato Carlo), la sua lettera ci consegna un’informazione davvero interessante sulla questione dei tempi.
Come già detto, in Italia la guerra era formalmente terminata il 2 maggio 1945, ma sul fronte Pacifico la guerra ancora era in corso. Il Giappone, alleato della Germania e dell’Italia, non aveva ancora firmato alcuna resa.
Il 6 e 9 agosto 1945 gli Americani sganciarono, come noto, bombe atomiche rispettivamente su Hiroshima e Nagasaki provocando un numero di vittime civili stimato compreso tra 150.000 e 220.000 persone. Sempre il 9 agosto l’Unione Sovietica attaccò a sorpresa la colonia giapponese della Manciuria.
L’imperatore giapponese Hirohito, vistosi accerchiato, non poté far altro che capitolare. Il 15 agosto le radio giapponesi diffusero un suo messaggio registrato tramite il quale si dichiarava la resa incondizionata del Giappone.
Formalmente, la resa venne firmata il 2 settembre a bordo della USS Missouri, ma il 21 agosto (data in cui Pietro scrive) la notizia aveva già fatto il giro del mondo ed era arrivata anche al campo di Nyeri.
Gli internati italiani rimasero nei campi ancora per un bel po’, non vennero subito rimpatriati: alcuni dovettero attendere anche un paio d’anni.
Non sappiamo, quindi, quando Pietro tornò dalla sua Ciccina, ma possiamo con grandissima probabilità dire che i due tornarono ad abbracciarsi.
Prima o poi.
Riproduzione riservata.