LATTE, TRA RAZIONI E SEMINATRICI DI CORAGGIO

LATTE, TRA RAZIONI E SEMINATRICI DI CORAGGIO

Siamo a Ponte a Moriano, frazione del comune di Lucca, ed è il 18 ottobre 1918.
La Prima guerra mondiale ancora imperversa in Europa, ma da lì a breve, e precisamente dieci giorni dopo, l’esercito italiano avrebbe registrato una delle vittorie decisive contro l’Austria-Ungheria, con la battaglia di Vittorio Veneto. Già l’11 novembre la guerra sarebbe stata vinta.

Come generalmente accade in tutte le guerre, anche durante il primo conflitto mondiale scarseggiano o mancano del tutto i generi alimentari, anche quelli di prima necessità: pane, latte, per non parlare poi di cibo quale carne o pesce, un miraggio averli sulla propria tavola.

Tutto ciò era causato da un duplice motivo.
Anzitutto, le requisizioni alimentari, sempre più frequenti e ingenti, a favore delle truppe sfiancate da anni di guerra di trincea. E in secondo luogo le speculazioni generalizzate attuate da approfittatori che rivendevano i generi di prima necessità, spesso adulterati o immangiabili, a prezzi gonfiati.

A questo si somma il fatto che la popolazione era non solo stremata psicologicamente dalla guerra, ma anche sfiancata fisicamente da turni di lavoro massacranti nelle industrie belliche, con paghe scadenti e in ambienti tutt’altro che salubri.

Il pane nero era razionato a pochi grammi a testa, grigiastro, umido, mal cotto, contraffatto e mescolato con gesso, biada, residui della lavorazione del riso, ghiande o carrube.

Il latte era venduto a prezzi esagerati. Per renderlo accessibile alla popolazione meno abbiente molti commercianti disonesti lo annacquavano o lo vendevano anche se avariato o contaminato da germi e batteri.

L’ufficio annona del comune di Roma decise quindi di commercializzare il cosiddetto “latte di guerra” ovvero latte condensato acquistato in Lombardia dalla Cooperativa Latteria Soresina, reintegrato per tre quarti con acqua, e distribuito alla mescita da carrettini ambulanti a prezzo calmierato.

Per approfondire questi aspetti si legga il lungo ma interessante articolo a firma del prof. Umberto Ferretti “Lo Stabilimento Frigorifero del Comune di Roma per la raccolta, il trattamento e la distribuzione del latte” pubblicato sulla “Rivista del freddo” del maggio 1918.

Tutto ciò fino al 1920. È del 18 aprile il Regio Decreto-Legge n.459 contenente disposizioni in merito al latte e ai latticini e che abroga tutti i limiti e i divieti imposti sino ad allora.

In questo contesto, quindi, non stupisce il contenuto della ‘nostra’ cartolina diretta a Venezia. Ecco il testo:
«E’ in corso di pubblicazione un decreto dell’On. Crespi che vieta la vendita nei bar e nei caffè del latte, ed istituisce la tessera dello stesso. Il latte sarà concesso:
a) Alle puerpere
b) Ai malati
c) Ai bambini al di sotto dei 12 anni
I fabbricatori di burro costernati domandano conforto alle seminatrici di coraggio.
Saluti e baci.»

Ho provato a recuperare il decreto di cui si parla nella cartolina, ma non ne ho trovato traccia. Forse l’imminente vittoria della guerra fece cambiare i piani e il decreto non venne promulgato, non saprei.
Sta di fatto che, promulgato o meno, quanto descritto nella cartolina rispecchia esattamente la realtà e la situazione del momento.

Balza agli occhi, tuttavia, la seconda parte del messaggio: ironia o che altro?
A me sembra di scorgere un po’ di humor inglese, ma sta di fatto che le “seminatrici di coraggio” sono esistite davvero.

Nelle more di decidere se entrare o meno in guerra (e, ricordo, ciò avvenne il 24 maggio 1915, dieci mesi dopo lo scoppio del conflitto), le donne italiane vennero sollecitate a mobilitarsi a favore dell’intervento.

Nel 1914 Sofia Bisi Albini aveva fondato il periodico “La Nostra Rivista” attraverso il quale intendeva dare voce alle donne “garbate”, colte, quelle dal ceto medio in su, per parlare di economia domestica ma anche di costume, di cultura, di cronaca, e dei movimenti femminili e femministi.

Allo scoppio della guerra, la rivista cambiò volto e diventò strumento di propaganda, di interventismo e di mobilitazione bellica. «È arrivata la Santa Guerra. Noi donne siamo pronte», dichiarava l’Albini dalle pagine de “La Nostra Rivista” del giugno 1915.

Da quelle pagine nella primavera del 1916 nacque così la “Lega nazionale delle Seminatrici di coraggio”, una delle prime aggregazioni del “mussolinismo femminile” (come la definisce Emma Schiavon nel suo “Interventiste nella Grande Guerra“, Mondadori, 2015), sorta appunto per “seminare coraggio” e idee patriottiche tra i figli della Patria.

«Sono giunte e continuano a giungere centinaia di adesioni. Diventeremo una vera forza nel Paese, un esercito femminile che contribuirà anch’esso alla vittoria, sconfiggendo quei subdoli nemici interni che oggi, deprimendo lo spirito pubblico, ingannandolo, tentano di allontanare la sacra vittoria. Il nostro lavoro più importante è quello di parlare: noi dobbiamo dire perché l’Italia fa questa guerra, quale condizione umiliante e vergognosa sarebbe stata la nostra se non l’avessimo fatto.» (da: “La Nostra Rivista”, maggio 1917).

Mentre infatti la maggior parte delle associazioni mobilitate per la guerra svolgono attività che rientrano nei modelli della tradizionale filantropia femminile dei ceti aristocratici e alto borghesi (assistenza, beneficenza), la “Lega delle Seminatrici di coraggio” propone alle donne un modo nuovo di sostenere la guerra. Non con le “opere” ma con le “parole” (da: Augusta Molinari, “Donne e ruoli femminili nell’Italia della Grande Guerra“. Selene Edizioni, 2008).

Tra le iscritte troviamo anche Elisa Mayer Rizzioli, la fautrice della nascita qualche anno più avanti dei Fasci Femminili.
E non è un caso, infatti, che la rivista termini le pubblicazioni nel marzo 1919: nuovi scenari si stagliano all’orizzonte, scenari oscuri, cupi, soffocanti.

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